Il grigiore di questa città viene fuori quando piove. La temperatura si alza di quel tanto da permettere ai cumuli di neve di sciogliersi. Gli ammassi immacolati accatastati ai lati dei marciapiedi rivelano a poco a poco mucchi di immondizia avvinghiata a lastre spesse di ghiaccio, foglie dell’autunno passato ibernate dalla tempesta su cui le macchine si solevano dall’asfalto, scivolando su una pista di pattinaggio.

Questo ritorno mi rasserena. Non c’è nulla da aspettare o da cambiare. La città è quello che è, sotto il suo manto di latte sporco. Riprendo la vita da capo, senza fratture, senza assenze né nostalgie. Ho avuto la benedizione di ritrovare tutto intatto, tutto come l’avevo lasciato. Persino il freddo si è soltanto intensificato in un crescendo che non mi spiazza, non mi stravolge, non mi lascia perplessa. 

Appartengo a questi luoghi più di quanto penso e di quanto so. E’ un cordone che difficilmente si spezzerà ma che non sto provando ad accorciare. Al tempo stesso, non mi stacco mai dall’altra casa, per paura che lasciare qui e tornare altrove possa essere ancora un altro trauma. Lo sarà comunque, ma tento di ammortizzarne gli effetti. 

Questa vita è elastica, contiene tutto e poi si accorcia, mi rilancia la carica addosso come una fionda. E si riprende tutto indietro. Sono parte di questo meccanismo di rivolta a molla, che si scarica e si ricarica a lentezza e velocità impreviste. La stabilità è un obiettivo ancora troppo lontano. Dopotutto che cos’è l’immobilità, se non la rinuncia alla mutevolezza? Giungo alla conclusione che posso essere ovunque e in nessun luogo, che sono nella spirale del viaggio e il ritorno è sempre più impossibile.